Il lavoro analizza i problemi di comprensione ideologica delle varie fasi della filosofia italiana in quale si riferiscono ad un sistema assiologico della visione spirituale cattolica. Questa analisi è offerta attraverso lo studio del concetto originale del filosofo italiano Giovanni Gentile, che tenta di creare in modo diverso concetti filosofici e religiosi che riflettono la vista spirituale, socio-culturale del mondo. Grande importanza è dedicata all’analisi delle principali categorie di concetti che costituiscono la principale teoria filosofica di base della religione. Attraverso l'analisi del patrimonio creativo di Giovanni Gentile, l'autore va alle generalizzazioni sociali e filosofiche generali, universali, che a loro volta delineano più accuratamente delineano la ricerca spaziale di Paolo de Lucia.
Come è noto, le gentiliane Origini della filosofia contemporanea in Italia, insieme alla crociana Letteratura della nuova Italia, costituiscono il frutto più cospicuo del tentativo — in larga misura riuscito — compiuto dai due diòscuri della filosofia italiana del primo Novecento, di imporre l’idea di una tradizione nazionale, filosofica e letteraria, che ritrova sé stessa, si compatta e si europeizza, nel momento in cui — lungo l’asse Spaventa-Gentile, e lungo l’asse De Sanctis-Croce — si pone alla sequela dei principi, speculativi e critici, scaturiti dalla grande lezione dell’idealismo classico tedesco [1].
Sviluppando spunti di Rosmini, Gioberti, e del fratello, Bertrando Spaventa aveva elaborato la teoria di una plurisecolare circolazione della speculazione filosofica europea, secondo la quale le prospettive elaborate dai filosofi italiani del Cinquecento, da intendersi come manifestazioni di un pensiero dell’immanenza, sarebbero state soffocate, in patria, dall’avvento della Controriforma, mentre avrebbero trovato compimento e sviluppo nei Paesi europei meno condizionati dall’oppressiva ipoteca religiosa e chiesastica, per poi riaffacciarsi in Italia attraverso le istanze «trascendentali», ravvisabili nel pensiero di Galluppi, Rosmini e Gioberti.
Orbene, intervenendo tredici anni or sono sull’antica sapienza italica, Paolo Casini intese liquidare la tesi che a tal mito in molti sensi succedette: proprio la dottrina spaventiana della circolazione della filosofia italiana nel corpo vivente della filosofia europea.
Secondo l’autorevole studioso, infatti, tale dottrina, che venne opposta da Spaventa al mito suddetto, non sarebbe stata meno deformante di esso, ma lo avrebbe semplicemente surrogato per quasi un secolo [2; 297].
«La teoria della circolazione,» — infatti — «era una sorta di monstrum, che banalizzava ulteriormente i percorsi schematici delle Vorlesungen hegeliane sulla storia della filosofia. Occultava l’influenza incalcolabile che Ficino e Pico avevano avuto in tutta Europa fino alla metà del Seicento; laicizzava artificiosamente la riflessione del tardo Rinascimento, ne tagliava fuori non soltanto le correnti ermetizzanti e occultiste, ma l’intera vicenda di Galileo e la rivoluzione scientifica da Bacone a Newton; riduceva Campanella e Bruno al ruolo paradossale di precursori di Cartesio e Spinoza, e via dicendo. Spaventa fissò a priori confini molto stretti attorno alla nazionalità della filosofia. Il suo schema speculativo, riduttivo e singolarmente povero, soprattutto nella forma adottata e svolta da Gentile, impose gravi inibizioni alla storiografia filosofica italiana fino alla metà del Novecento. I momenti centrali dell’intreccio tra pensiero italiano e pensiero europeo, esclusi nel 1861 dalla «circolazione del pensiero italiano», sono tornati lenta- mente in piena luce nella storiografia dell’ultimo cinquantennio soltanto dopo il tramonto dell’egemonia idealistica, soprattutto ad opera di studiosi refrattari al fascino dell’hegelismo»[3; 307–308].
È allora evidente che in altri ambiti andrà cercata l’originalità del contributo di Gentile alla edificazione di una costituenda filosofia della nazione italiana, che faccia tutt’uno con una lettura filosofica del nostro Risorgimento.
Ora, dati i visibili, strettissimi legami che intercorrono — in generale — tra italianità e Cattolicesimo, sembra opportuno interrogarsi altresì circa il modo in cui Gentile ha pensato il ruolo dell’Italia all’interno della vicenda storica della Chiesa cattolica.
«Io sono cristiano, perché credo nella religione dello spirito. E sono anche cattolico, perché credo che il cristianesimo sia una chiesa; e non ci può essere altra chiesa cristiana che la cattolica. (Chi dice chiesa dice comunione, e la comunione non può essere che universale)».
Le parole appena citate costituiscono l’incipit della prima stesura del testo di quella conferenza su La mia religione che Gentile tenne a Firenze il 9 febbraio 1943 [4; 73], e che nell’ambito della vicenda biografica ed intellettuale del pensatore siciliano costituisce una specie di unicum [5]. In questa sede, del brano appena citato a noi interessa sottolineare la sostanziale valenza ecclesiologica: la teorizzazione, cioè, della piena identità tra la Chiesa di Gesù Cristo e la Chiesa cattolica.
Sarebbe tuttavia fuorviante leggere in quelle parole la tendenza ad una eccessiva dilatazione del ruolo di quest’ultima in ordine alla espressione storica della esperienza cristiana. Ne è prova il fatto che discorrendo del volume di Giovanni Semeria [6] su Dogma, gerarchia e culto nella Chiesa primitiva [7], Gentile critica a fondo l’interpretazione letterale del brano evangelico che mostra Gesù mentre attribuisce all’apostolo Simo- ne il nuovo nome di Pietro, assegnandogli appunto il ruolo di pietra o roccia sulla quale verrà a fondarsi la Chiesa [8]. Dal punto di vista del Nostro, le parole del Cristo, per essere rettamente intese, vanno lette alla luce della precedente confessione di fede, nella quale Simone ha riconosciuto in Gesù il Figlio del Dio vivente, e quindi vanno interpretate nel senso che il cristianesimo e la Chiesa sorgono semplicemente in virtù della fede nella divinità di Gesù [9; 9–11].
Ciononostante, Gentile nella Mia religione non manca di sottolineare il fatto che la libertà del credente, il quale ha liberamente aderito ai dogmi proposti come rivelati, necessita dell’autorità come della propria norma interiore: la vita cristiana, a ben vedere, si sostanzia proprio del rapporto dialettico tra autorità e libertà. Nella Chiesa, i detentori dell’autorità debbono tenere ferma la consapevolezza del fatto che la cura spirituale dei fedeli ai quali sono preposti, va attuata con le armi dell’amore, dell’indulgenza, del perdono; i medesimi fedeli, d’altra parte, non debbono cedere alla tentazione di provare avversione nei riguardi di coloro che sono investiti del carisma dell’autorità, ma guardare ad essi con amore filiale, e con quel rispetto che si deve a chi, fra l’altro, conta un maggiore numero di anni, ed ha alle spalle una maggiore ricchezza di esperienza [10; 57–60].
Alla dimensione individuale della libertà, si affianca quella collettiva; di fatto, nei secoli del Medio Evo, fu proprio la Chiesa cattolica ad impedire il consolidarsi e l’affermarsi della libertà politica dell’Italia, trovando — in ciò — un fiero avversario, nella persona di Dante Alighieri. In Dante, va ravvisato un autentico profeta di un rinnovamento radicale della civiltà, da attuarsi mediante la riforma della Chiesa. In tale veste, sono degni di figurare al suo fianco soltanto Francesco d’Assisi e Girolamo Savonarola; mentre tuttavia l’empito riformatore di Francesco si ferma all’ambito religioso, e il fervore riformatore di Savonaro- la finisce schiacciato dall’alleanza tra Chiesa e Stato, Dante rivolge opportunamente il suo sguardo e alla Chiesa e allo Stato, nella consapevolezza della compresenza in entrambi — in diversa misura — tanto della dimensione spirituale quanto della dimensione temporale della realtà umana [11]. È appena il caso di ricordare che questa interpretazione, ancorché non immune dal rischio dell’enfasi e della retorica, è stata in un certo senso continuata dagli studi di Bruno Nardi e Francesco Ercole, ed ha suscitato l’interesse di Augus- to Del Noce [12].
Come è noto, in Dante è ancora ben presente la dottrina medievale che vede nella Chiesa e nell’Impero i rappresentanti di Dio sulla terra. Da questa concezione, conseguiva una prospettiva secondo la quale l’uomo era tenuto a sottomettersi ad una verità e ad una legge che lo trascendevano. Ma in questo modo, secondo Gentile, la cristianità veniva a discostarsi dal significato profondo del cristianesimo, che consisteva e consiste nella valorizzazione dell’uomo, visto come partecipe della natura divina. Da ciò discende che, sul finire del Medio Evo, del messaggio profondo della rivelazione cristiana non si fa banditore l’uomo di Chiesa in quanto tale, ma il letterato umanista [13; 139,146].
Analogamente, secondo Gentile, in quella che potremmo indicare come la storia dello spirito, la Riforma protestante riveste un ruolo assiologicamente inferiore alla funzione svolta dal Rinascimento [14].
«Forse perché il primato della grazia, la proclamazione luterana del servo arbitrio, la depressione delle opere e la salvezza fatta dipendere da tutt’altro che dall’impegno intellettuale e umano dell’individuo offendevano in lui il pensatore dell’atto puro e, potrebbe dirsi, dello Streben incessante? […]. La ragione dell’ostilità risiede nella conseguenza che, almeno per un verso, Gentile non dedusse dalla sua premessa, e cioè dall’orientamento generale del suo pensiero. Risiede, potrebbe dirsi, in una scelta filocattolica che aveva in realtà origini lontane, perché risaliva, se addirittura non si creda di dover chiamare in causa il Rosmini e Gioberti, agli scritti antimodernistici» [15; 173–177].
Alla stimolante ermeneusi di Gennaro Sasso, si potrebbe forse conferire una curvatura che collochi la «scelta filocattolica» di Gentile più alle origini del suo pensiero teoretico che alle fondamenta della sua prospettiva religiosa, come attesta in qualche misura il fatto che approntando, alla vigilia della morte, la riedizione del Rosmini e Gioberti, il filosofo siciliano vi inseriva una nota, nella quale sosteneva che il suo concetto di «Atto puro» «non è se non lo sviluppo dello stesso trascendentale kantiano-rosminiano, intorno al quale la mia mente giovanile si travagliava quasi mezzo secolo fa» [16].
In ogni caso, in più di una circostanza Gentile sembra procedere nei giudizi in modo scevro da un anticattolicesimo di tipo pregiudiziale: se ne ha un significativo esempio nel fatto che, nella Prefazione alla Filosofia italiana di Spaventa, non esita a contrapporre alla tesi spaventiana secondo cui l’assenza di una ininterrotta tradizione filosofica italiana — in età moderna — sarebbe dovuta al presunto ruolo liberticida della Chiesa cattolica, la constatazione di un prevalente interesse, nell’Italia di quei secoli, per le scienze naturali, matematiche e storiche [17].
Del resto, a ben vedere, nemmeno il «caso Galilei», che certo alienò alla Chiesa parecchie simpatie, inducendo una percezione negativa dell’atteggiamento della Chiesa stessa nei riguardi dell’avanzamento del sapere [18; 254–255], poté scalfire quella profonda consustanzialità tra cattolicesimo e spirito nazionale italiano, la quale avrebbe trovato espressione nel carattere intimamente religioso del nostro Risorgimento.
In concreto, alla schiera di coloro che a quell’epoca si ispirarono ad una visione etico-religiosa della vi- ta e della politica, appartennero gli uomini che hanno promosso l’unificazione politico-culturale dell’Italia: Capponi, Rosmini, Manzoni, Mazzini, Cavour, Ricasoli [19; 8–11]. In questi termini, la lettura gentiliana del Risorgimento si qualifica come opposta a quella offerta da un Raffaele Mariano, per il quale Risorgimento nazionale e tradizione cattolica costituiscono due dinamiche storiche sostanzialmente inconciliabili [20; 94].
Proprio Mariano, viene reso oggetto, da parte di Gentile, di una stroncatura senza appello, che si può sintetizzare nella negazione del carattere scientifico del pensiero e dell’opera dello studioso campano, accusato da Gentile, tra l’altro, di professare una prospettiva religiosa affatto priva di chiara identità dottrinale [21; 159–169].
Altra e più seria cosa è per Gentile il fenomeno del modernismo, l’anima filosofica del quale è rappresentata dal «metodo d’immanenza» di Maurice Blondel. Seguendo in qualche modo tale metodo, i modernisti rifiutano di accostarsi a Dio come oggetto di speculazione astratta, e rivendicano all’amore lo sta- tus di mezzo adeguato per attingere l’assoluto, che va cercato all’interno stesso dello spirito di colui che indaga. Orbene, secondo Gentile, l’esito a cui il «metodo d’immanenza» approda, consiste in una posizione paradossalmente ateistica, nel senso che, al termine dell’applicazione di esso, il pensiero non riesce ad incontrare Dio. La ragione di ciò risiede nel fatto che il metodo in questione esplora la dimensione moderna dell’interiorità al fine di rinvenire una realtà suppostamente collocata all’esterno dell’uomo: il vecchio Dio- oggetto, il Dio della rivelazione cristiana e dell’intellettualismo scolastico [21; 41–75].
Ora, così come per Mariano la singolare posizione di un Rosmini, uomo di Chiesa condannato dalla stessa, si spiega alla luce della discrasia tra l’esigenza moderna, e fatta propria dal Roveretano, di concepire la natura umana come partecipe di quella divina, e la volontà di rimanere fedele ai dettati della Chiesa di Roma [22; 146–160], analogamente per Gentile la paradossale situazione dei modernisti, che per rivitalizzare la fede finiscono con il porsi in dissidio con la Chiesa, è spiegabile alla luce della loro volontà di preservare la tradizionale prospettiva teistica, muovendo da una posizione metodologica che conduce inevitabilmente a superarla.
Tale analogia scaturisce evidentemente da una comune presa d’atto, di Gentile e di Mariano, del carattere monolitico, di diritto oltre che di fatto, della Chiesa cattolica, così come questa è venuta effettivamente a configurarsi dal Concilio di Trento in poi. Circa la posizione di Gentile, tuttavia, occorre sottolineare il carattere indebito di una particolare operazione teorica che il filosofo siciliano compie con l’abituale sicurezza, quasi senza accorgersene: l’interpretazione del predetto carattere monolitico della Chiesa cattolica come egli l’ha conosciuta, certamente determinato da circostanze storiche, come di un fattore costitutivo dell’essenza stessa della Chiesa. Tanto alla fine dell’intervento sull’enciclica Pascendi, quanto nell’Avvertenza alla seconda edizione del volume che raccoglie i suoi scritti sul modernismo, Gentile prospetta come destino ineluttabile del cattolicesimo il progressivo irrigidimento e ripiegamento su di sé, e il progressivo compimento della più totale estraneazione dal corso della filosofia e della cultura moderne [23; 41–75 e X].
Storicamente, il Concilio Ecumenico Vaticano II si è svolto precisamente con lo scopo di realizzare l’incontro del messaggio cristiano, così come è vissuto dalla più antica tra le Chiese, ed il mondo così come è scaturito dal travaglio della modernità. Non si tratta certo di un processo valutabile nell’arco di una generazione, né si tratta di evento che Gentile avrebbe potuto in qualche misura prevedere; esso costituisce, tuttavia, un fatto che smentisce qualsiasi visione deterministica dell’esperienza storica, al punto da far emergere una volta di più la problematicità della stessa nozione di «filosofia della storia».
«Farei qualche riserva su l’affermazione del Bontadini, — osserva a buon diritto Armando Carlini — che il Gentile non sia arrivato a «pensare il Cattolicismo», poiché io direi, anzi, il contrario: che l’attualismo è tutto un ripensamento del Cattolicismo e dei suoi dogmi fondamentali […]. In breve: anzitutto, il dogma trinitario, ch’egli riduce fondamentalmente ai tre momenti dialettici dell’atto, proclamando che questa è la vera monotriade. Poi, il Logo giovanneo, la dottrina del Verbo, per il quale «omnia facta sunt, et sine ipso factum est nihil quod factum est»: che diventa il logo astratto, cardine della nuova logica ch’egli tentò di fondare nella sua opera maggiore, nella quale l’astratto è la veritas del mondo, e il concreto è la vita che ha il logo nella personalità morale (Ego sum veritas et vita). In quanto, poi, quel Verbo è incarnato e umanizzato nel Cristo, Gentile l’ha […] pensato e ripensato in continuazione in tutte le sue opere, traendo, proprio da questo dogma, il motivo del suo umanismo teologico, in cui la trascendenza non si limita a farsi immanente (come ogni cattolico, credo, potrebbe accettare), ma diventa motivo dialettico dello sviluppo interno all’atto» [24].
Nell’ipotesi che queste osservazioni di Carlini colgano nel segno, ci si può chiedere — in sede teorica se non sia contraddittoria una posizione che affermi da un lato l’intrinseca invariabilità della dottrina cattolica, e che cerchi dall’altro di declinarla filosoficamente secondo i principi dell’attualismo; a meno che non si cerchi rifugio nella dottrina giobertiana della poligonia del cattolicesimo, sulla base della quale risulterebbero sostenibili tanto l’idea dell’invariabilità del cattolicesimo stesso così come è professato dal Papa regnante pro tempore, quanto l’affermazione della declinabilità in chiave speculativa del cattolicesimo di Gentile. Quantunque Gentile medesimo abbia fatto ricorso più volte alla predetta dottrina giobertiana [24; 89], sembra consentito affermare che non è dato rilevare, in quei suoi scritti che presentano fra l’altro una valenza storico-ecclesiologica, una struttura argomentativa che si serva esplicitamente del dato storico per suffragare la visione poligonica del cattolicesimo, la quale forse può essere intesa come l’unica prospettiva che potrebbe conferire coerenza alla posizione del filosofo siciliano nei confronti della religione cristiano-
In questo ordine di idee, che ne è del rapporto tra italianità e cattolicesimo? Anche a tale riguardo, decisivo è il riferimento alla posizione filosofica e storica di Antonio Rosmini. Come osserva Luciano Malusa, «Rosmini partiva dal presupposto che per togliere di mezzo i funesti segni lasciati sulla cultura del nostro paese dalla mentalità razionalistica e sensistica dell’Illuminismo occorreva far ritorno al cristianesimo ed alla trascendenza, instaurando una nuova capacità enciclopedica, questa volta nel segno della religione. Gentile ritiene fondate le preoccupazioni di Rosmini e vede nel ritorno alla religione cristiana un elemento di miglioramento dello spirito pubblico. Inquadrando questo ritorno entro il complessivo fenomeno del Romanticismo, che riuscì a mettere le sue radici in Italia grazie soprattutto ad Alessandro Manzoni (e non è un caso che questi finisse col legarsi di un’amicizia sincera con il prete di Rovereto [25]), Gentile afferma implicitamente che un rinnovamento complessivo dell’Italia non poteva prescindere dall’instaurarsi di un genuino sentimento religioso» [26; 106].
Per Gentile, in realtà, «il Risorgimento non comincia né nel ’31, né nel ’20 o 21, né nel 1796, né nel periodo delle riforme. Ogni tentativo che si faccia, di segnare un punto di partenza in fatti determinati, ha dell’arbitrario e dell’assurdo, né più né meno di quelle fantastiche cosmogonie che offrono alle immaginazioni pigre e puerili un qualunque inizio determinato agli accadimenti del mondo nel suo complesso […] Il problema della unità italiana, che per universale consenso è il problema imposto da Mazzi- ni all’Italia e all’Europa del secolo decimonono, è bensì il problema centrale del Risorgimento; ma di un ri- sorgimento che comincia con la stessa storia d’Italia. Ed è naturale, perché l’unità doveva essere prima un bisogno per poter essere poi un programma e un moto politicamente efficace. Bisogno necessario, spontaneo, ovvio, da quando gl’Italiani cominciano a sentirsi un popolo, ad avere cioè coscienza d’una comunanza di elementi morali costitutivi del loro essere, della loro personalità, della loro distinta individualità» [27;131– 133].
Ebbene, ancora nel 1944 Gentile tiene a ribadire che il fascismo ha fatto riascoltare all’Italia proprio la voce di Mazzini, nelle sue note più profonde, sostanziantesi in una concezione religioso-spiritualistica del mondo, nella quale la visione totalitaria della vita si traduce in una avversione del cuore, prima ancora che della ragione, all’individualismo liberale [27; 129, 151–152].
Ma di quale fascismo — è lecito chiedersi — Gentile è il teorico? Il filosofo dell’atto puro non può non tenere ferma la sostituzione idealistica dell’esse sequitur operari al classico operari sequitur esse, quindi non può — come osserva Antimo Negri — non avere a cuore la preservazione dell’inquietudine del divenire, che viceversa il maestro Hegel fa in ultima analisi precipitare nel risultato calmo della compiutezza. Di conseguente necessità, il pensatore siciliano si pone allora come il teorico del fascismo-movimento, dell’inizio e della fine, nonché del fascismo istituzionale dei primi anni, garante del principio di libertà dinanzi alla minaccia del totalitarismo marxista [28].
Questo, evidentemente, non gli impedisce di «affermare che il fascismo aveva cambiato l’Italia: aveva cambiato lo Stato, sottraendolo alla falsa democrazia delle sette, delle camarille, dei partiti, e introdotto l’ordine corporativo, gettando le basi di una nuova struttura sociale del Paese. Per Gentile, il fascismo non aveva distrutto il socialismo, ma lo aveva purificato dai suoi aspetti negativi, inquadrando le esigenze dei lavoratori nei sindacati e mediante essi nell’economia nazionale. Per Gentile, il fascismo non aveva neppure distrutto il liberalismo: aveva anzi ripreso quello del Risorgimento, che nel nuovo Stato unitario gli apparve rappresentato dalla Destra storica. Aveva sanato il bilancio dello Stato, rivalutato la lira, dato una nuova coscienza agli Italiani del loro valore. Stava creando una nuova classe dirigente. Quest’ultimo problema sarà per Gentile un assillo fino alla fine dei suoi giorni. Non cessò mai di lavorare perché attraverso la cultura, la scuola, l’università, si formasse un italiano diverso da quello che per secoli era stato l’italiano scettico, fazioso, preso dal suo particolare» [29; 121].
Con ogni evidenza, il giudizio sul fascismo spetta alla storia degli storici, volendo parafrasare una felice espressione di Fulvio Tessitore [30]. Ai filosofi a cui stanno a cuore l'Italia e gli Italiani, spetta viceversa di riconoscere che la ripresa di quest’ultimo compito si pone con chiarezza come l'esigenza del momento.
References
- B.Croce, La letteratura della nuova Italia. Saggi critici, 4 voll., Laterza, Bari 19293; G.Gentile, Le origini della filosofia contemporanea in Italia, nuova ed. riv. da V.A.Bellezza, 3 voll. in 4 tt., Sansoni, Firenze 1957.
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- G.Gentile, La mia religione e altri scritti, Introduzione di H.A.Cavallera, Le Lettere, Firenze 19922 (Sansoni, Firenze 19431).
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- V.M.Colciago, Semeria, Giovanni, in Autori Vari, Enciclopedia Cattolica, diretta da P.Paschini, 12 voll., Ente per l’Enciclopedia Cattolica e per il Libro Cattolico, Città del Vaticano 1948–1954; XI, coll. 275–277.
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- G.Gentile, I problemi della Scolastica e il pensiero italiano, Sansoni, Firenze 19633 (Laterza, Bari 19131).
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- Gentile, Rosmini e Gioberti. Saggio storico sulla filosofia italiana del Risorgimento, Sansoni, Firenze 19583 (Nistri, Pisa 18981; Sansoni, Firenze 19552), p. 222 nota 1; cfr. anche p. XVIII. In proposito, si veda altresì P.Carabellese, Cattolicità dell’attualismo, «Giornale critico della Filosofia italiana», 26 (1947), 1–2, pp. 44–61 (poi in Autori Vari, Giovanni Gentile. La vita e il pensiero, I, Sansoni, Firenze 1948, pp. 125–144).
- G.Gentile, Prefazione alla seconda edizione (1908) di B.Spaventa, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea (con il titolo Prolusione e Introduzione alle Lezioni di filosofia nella Università di Napoli. 23 Novembre — 23 Dicembre 1861, Vitale, Napoli 1862; con il titolo attuale, a cura di G.Gentile, Laterza, Bari 1908), in B.Spaventa, Opere, a cura di G.Gentile, Avvertenza di I.Cubeddu — S.Giannantoni, Bibliografia di I.Cubeddu, 3 voll., Sansoni, Firenze 1972; II, pp. 405–719; pp. 416–417. Cfr. anche M.Cicalese, La formazione del pensiero politico di Giovanni Gentile (1896–1919), Marzorati, Milano 1972, pp. 146–147.
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- G.Gentile, Discorsi di religione.
- R.Mariano, Saggio sul Risorgimento italiano secondo i principi della filosofia della storia (1866), a cura di E.Gaddini, Sandron, Roma 1945.
- G.Gentile, Il modernismo e i rapporti fra religione e filosofia.
- P.De Lucia, L’istanza metempirica del filosofare. Metafisica e religione nel pensiero degli hegeliani d’Italia, Prefazione di L.Malusa, Accademia Ligure di Scienze e Lettere, Genova 2005.
- G.Gentile, Il modernismo e i rapporti fra religione e filosofia.
- A.Carlini, Gentile e il modernismo, in Id., Studi gentiliani (vol. VIII della Serie Giovanni Gentile. La vita e il pensiero), Sansoni, Firenze 1958, pp. 75–95; il brano riportato è a p. 88.
- in proposito A.Manzoni — A.Rosmini, Carteggio (Edizione Nazionale ed Europea delle Opere di Alessandro Manzoni, vol. XXVIII), Premessa di G.Rumi, a cura di L.Malusa e P.De Lucia, Centro Nazionale Studi Manzoniani, Milano 2003.
- Malusa, Filosofia e religione nelle pagine del giovane Gentile. La genesi della visione gentiliana della tradizione etico- religiosa in Italia anteriormente all’adesione «liberale» al fascismo (1920–1923), «Rivista di Filosofia neo-scolastica», 87 (1995), 1, pp. 83–118.
- Gentile, I profeti del Risorgimento italiano, Sansoni, Firenze 19443 (Vallecchi, Firenze 19231).
- Antimo Negri, Giovanni Gentile, Edizioni dell’Arcipelago, Genova 1992.
- Coli, Giovanni Gentile, Il Mulino, Bologna 2004.
- Ci riferiamo al prezioso intervento di F.Tessitore su Mazzarino e lo storicismo degli storici, Università degli Studi — Facoltà di Lettere e Filosofia, Catania